petrucciani

I principi internazionali di catalogazione e la musica:
evoluzione della normativa e progetti internazionali

Convegno nazionale: Roma, 28 ottobre 2004

 

 

 Alberto Petrucciani, La Commissione RICA e la musica

Il mio intervento risponde solo in piccola parte al titolo, per almeno due ragioni. Gli incontri e i contatti tra la Commissione RICA e il Gruppo di lavoro IAML sulla catalogazione sono stati estremamente ricchi di spunti di lavoro interessanti, che restano però ancora da sistematizzare. Inoltre, non ho titolo a rappresentare ufficialmente la Commissione e il suo lavoro non è arrivato, in questo campo, a posizioni comuni e ben definite che si possano riportare in un intervento “ufficiale”.
        Ho accettato però con molto piacere (e forse con una certa superficialità) questo invito, per una ragione molto semplice: nell’ambito della musica si incontrano problematiche catalografiche complesse, ma anche molto stimolanti, e fra i bibliotecari musicali, anche se non sono molto numerosi, la competenza e l’interesse per questo campo sono davvero notevoli. Credo perciò che il dialogo tra specialisti di catalogazione musicale e persone che, come me, si occupano di principi di catalogazione e di didattica, possa essere estremamente fruttuoso per entrambe le parti.
         Questo dialogo, secondo me, dovrebbe essere basato su un unico e semplicissimo principio. Per me è ormai una specie un articolo di fede, ma credo che possa essere, se non proprio dimostrato, ampiamente argomentato e sostenuto. Il principio è il seguente: buoni principi di catalogazione, e buone norme, devono riflettere in maniera adeguata la realtà sottostante, culturale ed editoriale, con quelle semplificazioni che possono essere necessarie in un sistema che risponde ad esigenze pratiche e di normalizzazione, ma senza mai tradire la sostanza (culturale e storica) dei fenomeni che il catalogo deve rappresentare.
         Di conseguenza, le problematiche più complesse, come molte di quelle che si incontrano in ambito musicale (per il titolo uniforme, per la distinzione di edizioni e tirature, ecc.), costituiscono non dei “problemi”, inconvenienti che si cerca di mettere in un canto o di risolvere con qualche trucchetto ad hoc, ma temi che andrebbero analizzati più a fondo. Così succede, o dovrebbe succedere, in ogni campo scientifico. Le problematiche più complesse dovrebbero essere prese come campo di sperimentazione, come test, per verificare la qualità, la tenuta, di un modello o schema catalografico.
         Secondo un principio comune alla filosofia e metodologia della scienza, un modello che sappia riflettere efficacemente situazioni complesse saprà rappresentare anche quelle più semplici e va considerato superiore (anche se non definitivamente) ad un modello che non riesca a rappresentarle. Se un buon modello è un modello che riesce facilmente a rappresentare anche una situazione complessa, o mai analizzata in precedenza, al contrario è un cattivo modello quello che, sottoposto al test di una situazione nuova e non banale, si rivela incapace di rappresentarla e di trattarla, se non con espedienti di fortuna.
         D’altra parte, chi si occupa di catalogazione dovrebbe sempre ricordare il vecchio avvertimento di Seymour Lubetzky (e, in Italia, di Diego Maltese), secondo il quale, di contro all’estrema varietà della casistica e ai suoi mutamenti a volte rapidi e imprevisti, poche sono invece le condizioni bibliografiche di base, che si ripresentano, nella stessa forma o in veste molto simile, in campi diversi e a distanza di tempo.
         In effetti, appena ci si guarda intorno con attenzione e ci si accosta alle problematiche specifiche di più campi della catalogazione e dell’indicizzazione, si incontrano situazioni strettamente affini, se non identiche, a quelle che a prima vista possono apparire come problematiche squisitamente limitate alla catalogazione della musica.
         Quando è così, un ovvio principio metodologico vuole che si cerchino soluzioni comuni, basate su principi comuni, sia per le norme generali che per quelle relative a una particolare categoria di materiali. Più precisamente, le norme generali di catalogazione dovrebbero essere impostate in maniera da potersi applicare in maniera funzionale e diretta anche a problematiche speciali, e le indicazioni per problematiche speciali (p.es. in una normativa specifica per la catalogazione della musica) dovrebbero guidare all’applicazione dei principi generali nel campo particolare, piuttosto che contraddire i principi generali stessi o, cosa che succede anche più spesso, ignorarli o “reinventarli”, in maniera che rischia di essere estemporanea e non adeguatamente approfondita.

 

Una delle questioni di base che ha maggior peso per la catalogazione musicale è quella dell’individuazione e della registrazione dell’opera e dell’espressione, con la problematica conseguente dei titoli uniformi. In quest’ambito, il caso della musica a mio parere ha mostrato molto bene gli aspetti ancora insoddisfacenti del modello FRBR, come è stato rilevato p.es. nel documento del Gruppo di studio sulla catalogazione dell’AIB (Osservazioni su Functional requirements for bibliographic records: final report, “Bollettino AIB”, 39 (1999), n. 3, p. 303-311, disponibile anche in “AIB-WEB” a http://www.aib.it/aib/commiss/catal/frbrit.htm).
         Ma questa insoddisfazione non dipende dalle peculiarità del materiale musicale. La rigida distinzione fra opera, espressione, manifestazione ed esemplare viene messa altrettanto in crisi, p.es., se proviamo ad applicarla al libro antico, per il quale è normale – come si sa o almeno si dovrebbe sapere – che gli esemplari di una stessa edizione (manifestazione) contengano varianti, spesso ma non sempre “piccole”, di contenuto e non di forma (ammesso e non concesso che le due dimensioni si possano separare). O i diversi esemplari vengono considerati espressioni diverse, o la definizione di espressione, basata sull’identità testuale, deve essere riconsiderata.
         La distinzione tra contenuto (testuale) e forma (grafica), centrale in FRBR, non può essere certo ammessa senza riflessione. Gli studiosi di storia del libro e dell’editoria, o di bibliografia analitica, sono oggi unanimi nel ritenere che forma e contenuto di una pubblicazione (a stampa o d’altro genere) non si possano dissociare in maniera astratta. Secondo la formula di Don McKenzie, il grande bibliografo scomparso qualche anno fa, “form effects meaning”: le forme realizzano, ma al tempo stesso determinano, i contenuti.
         Non è nemmeno vero, come si potrebbe essere tentati di sostenere, che il modello FRBR mostri la sua insufficienza solo in settori di catalogazione in qualche modo “speciale”: provate semplicemente a domandarvi come sia rappresentabile, attualmente, un insieme di pubblicazioni a stampa sostanzialmente tradizionali, ben note ai bibliotecari, ossia le edizioni e traduzioni della Classificazione decimale Dewey. La 21a edizione italiana non è, evidentemente, un’espressione di un’espressione?
         A mio avviso, l’insufficienza principale del modello, che si manifesta in maniera vistosa nella problematica dei titoli uniformi per la musica, è dovuta a una specie di “errore ontologico”, ossia, più semplicemente, alla ricerca di un (inesistente) fondamento ontologico, sostanziale, nella rete di relazioni che legano fra loro i prodotti delle attività intellettuali ed editoriali.
         Per inciso, vorrei mettere sempre delle vistose virgolette intorno alla parola “ontologia”, oggi piuttosto di moda, perché le problematiche ontologiche sono filosoficamente assai complesse, ed è sempre bene guardarsi dall’usare parole di cui si ha soltanto un’idea vaga, ma non se ne comprendono bene il significato e le implicazioni. L'”ontologia” di FRBR, con i suoi quattro oggetti così imprecisamente definiti, mi ricorda un po’ i quattro elementi dei filosofi presocratici che studiavamo al liceo: terra, acqua, aria, fuoco. Il mondo, come sappiamo da tempo, è decisamente più complicato di così.
         In attesa di un Mendeleev che ci proponga risposte più convincenti, forse una linea di ricerca più fruttuosa, a mio parere, sarebbe quella di non pensare di essere di fronte a quattro entità di natura sostanzialmente diversa, ma piuttosto a un sistema di classi, e soprattutto di “classi di classi”, che si costruisce (fallibilmente e forse anche approssimativamente) a partire da un gran numero di oggetti materiali determinati. Il concetto di “classi di classi”, fra l’altro, è anch’esso un concetto piuttosto complesso, pur se da tempo esplorato nella logica e nella teoria della matematica, e meriterebbe di essere approfondito per un’eventuale applicazione alle problematiche bibliografiche.
         La bibliografia ha a che fare, in linea di principio, con una produzione di esemplari “in serie”, e quindi con una distinzione di base (ma orientativa e da assumere sempre in maniera vigile e critica) tra gli elementi identificativi comuni ai diversi esemplari (che sono poi più o meno gli elementi della descrizione bibliografica, ossia dell’edizione) e la loro singolarità. La citazione bibliografica da parte degli studiosi e la registrazione in bibliografie e cataloghi, così come la citazione testuale moderna (con le sue virgolette e il riferimento a una certa pagina di una data edizione), si fondano sul presupposto fondamentale della fungibilità dei singoli esemplari. Lo studioso o il catalogatore lavorano, di solito, su una singola copia, presupponendo che chiunque se ne procuri un’altra (acquistandola, consultandola in biblioteca, ecc.) vi trovi esattamente lo stesso testo, registrato nella stessa forma. Sappiamo che non è sempre così, ma non possiamo rinunciare a questo presupposto.
         Questa distinzione di base, però, va assunta in maniera critica, per vari motivi:

  • vi sono forme di produzione al confine fra seriale e non seriale (contaminazioni fra manoscritto e stampato, interventi manuali ma eseguiti in serie sul libro antico, sul libro illustrato o sulle stampe musicali, o procedure più complesse della stampa ordinaria, p.es. l’uso dei timbri a secco per la musica o, fra le nuove tecnologie, il print-on-demand),
  • vi sono inoltre spesso, a ben guardare, numerosi sottoinsiemi (e sottoinsiemi di sottoinsiemi) all’interno di quella che possiamo considerare una stessa edizione: tirature ed emissioni, ma anche lastrazioni (uno dei concetti introdotti dalla bibliografia analitica per la produzione otto-novecentesca), o assemblaggi e finiture differenziati di pubblicazioni composite, e questi sottoinsiemi possono essere o non essere dotati di propri contrassegni di identificazione (come, p.es., quelli delle ristampe).

 Considerando attentamente questi problemi, invece di ignorarli, per i paraocchi di una formazione tecnicistica, o di cercare di nasconderli “sotto il tappeto”, dovremmo a mio parere riconsiderare la tradizionale ripartizione fra descrizione bibliografica e dati d’esemplare (di copia, o di consistenza). Oggi questa bipartizione troppo rigida ci costringe tra Scilla e Cariddi: creare una nuova registrazione bibliografica per ogni insieme o sottoinsieme di esemplari che abbia almeno un carattere di differenziazione (data, consistenza, ecc.), ingorgando fastidiosamente i nostri cataloghi soprattutto se collettivi, oppure rinunciare a registrare queste caratteristiche differenti, con sicuri danni per gli studiosi, o forzarle nella posizione non corretta e non funzionale dei dati d’esemplare. Avremmo bisogno, invece, di formati bibliografici, norme di descrizione e programmi di gestione dei dati catalografici che consentissero di trattare “grappoli” di descrizioni con varianti, ciascuna delle quali collegata ai rispettivi esemplari. Non abbiamo gli strumenti per farlo, ma il concetto di per sé è tutt’altro che nuovo: sono fatte così, p.es., le grandi bibliografie di incunaboli.
         I problemi che emergono riguardo ad esemplare ed edizione in una considerazione attenta, non superficiale e coerente con le acquisizioni degli studi bibliografici e di storia dell’editoria, si ripercuotono anche al livello superiore, quello che nel modello FRBR è definito come “espressione”. In genere le discussioni sul modello FRBR si sono concentrate su questa “nuova” entità, ma come spero di aver mostrato è tutto il quadro delle entità del primo gruppo a dover essere riconsiderato più attentamente, perché ogni entità è interdipendente rispetto alle altre.
         Quando dalla manifestazione (pubblicazione o edizione) come prodotto editoriale, spesso costituito da più sottoinsiemi o sottoinsiemi di sottoinsiemi, passiamo al livello superiore, quello dell’espressione, non stiamo quindi passando a un’identità testuale con variazioni di forma materiale. Sarebbe bello e comodo, ma non è vero. Stiamo invece passando da una fenomenologia editoriale complessa ma definita, che possiamo affrontare con l’analisi materiale e registrare attraverso le nostre norme di descrizione (magari migliorate a questo scopo), ad insiemi di pubblicazioni affini, ma non uguali né per forma né per contenuto (checché significhi questa distinzione). Questa affinità può essere definita formalmente, o addirittura trasformata in una “entità”, l’espressione (con l’articolo determinativo)? Quali sono le differenze sostanziali fra questa entità e quella di livello più alto, l'”opera”? E come si collocano in questo quadro fenomeni di carattere intermedio, come le famiglie di espressioni?
         A mio parere, dovrebbe essere abbastanza evidente che quando ci spostiamo dal livello della manifestazione a quello dell’espressione e dell’opera lasciamo l’ambito dell’analisi materiale delle testimonianze per entrare in quello dell’organizzazione intellettuale delle conoscenze. Credere all’esistenza di “entità” precostituite, o anche cercare di “scoprirle”, non ci aiuta: dovremmo piuttosto riflettere sui modi migliori di organizzare le informazioni rispetto alle acquisizioni dei saperi specializzati, che il catalogo non può ignorare o falsare, e alle esigenze degli utenti, alle quali il catalogo deve servire.
         Oggi, nel nostro campo, si guarda a nuovi modelli e nuovi principi, ma i risultati raggiunti finora sono insoddisfacenti, perché troppo legati al confronto delle pratiche correnti, piuttosto che fondati sull’approfondimento teorico e sul dialogo con le discipline che da prospettive diverse affrontano problematiche e temi che ci riguardano. Bisognerà cercare soluzioni nuove, che potranno al principio apparire non familiari, come avviene normalmente nei progressi della conoscenza umana, ma che siano davvero all’altezza dei passi avanti compiuti nel secolo passato e dei livelli raggiunti oggi dalle altre branche del sapere scientifico.

© IAML Italia – 2004
ultimo aggiornamento: 29 novembre 2004

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